Fast Fashion: il business della moda

Fast Fashion: il business della moda

Il modello di business del “fast fashion” si basa sul desiderio del consumatore finale di indossare abiti sempre nuovi e alla moda. Per soddisfare questa esigenza, le aziende del settore propongono un’ampia varietà di capi di abbigliamento, che rispecchiano le ultime tendenze, il tutto accessibile a prezzi più che convenienti. Possiamo dire che tale mix di fattori rendono notevolmente appetibile il prodotto, e su ciò i brand che operano tramite questo modello fanno leva per attrarre a sé il cliente. Così facendo il consumatore tende ad acquistare sempre più articoli, fino a raggiungere l’overconsumption, ovvero un consumo eccessivo.

Ciò provoca una produzione di massa estrema con consumi energetici abnormi, un inquinamento diretto ed indiretto incommensurabile e uno sfruttamento lavorativo di cui paesi civili dovrebbero tenersi alla larga ed osteggiare, anziché nutrirlo. Un vestiario dal prezzo ridotto rispecchia anche le condizioni lavorative in cui vengono prodotte, ovvero in paesi in cui la manodopera (tra cui molti minori) è a livelli di alienazione estremi, venendo essa ampiamente sfruttata e sottopagata.

Bisognerebbe mettere di fronte alle proprie responsabilità, sia morali che legali, i brand che si ergono su tale modello: primo tra tutti Shein, e-commerce multinazionale cinese, emblema del fast fashion. Si è scoperto, tramite giornalisti infiltrati nell’organizzazione, che sono stabiliti orari di lavoro composti da 18 ore al giorno per ogni lavoratore, condizioni inumane di cui dovrebbe rispondere sia l’azienda che il consumatore stesso, quest’ultimo da un punto di vista prettamente morale, in quanto artefice indiretto della distruzione delle vite di costoro che, costretti da una condizione di estrema povertà accettano di essere vessati per poter sostenere sé e le proprie famiglie.

Di Luca Vece

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