Livatino: la storia del giudice vittima della mafia

Nella giornata del 15 febbraio gli studenti dell’Istituto Besta-Gloriosi frequentanti le classi Quinta A AFM e Quinta A SIA, con le classi Quarta B SIA, Quarta B AFM, Quarta C AFM e Quarta A AFM hanno avuto l’occasione di dialogare sulla figura del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia nel 1990.

Chi era Rosario Livatino?

Rosario Angelo Livatino nasce a Canicattì il 3 ottobre 1952. Compie i suoi studi al liceo classico Ugo Foscolo e si laurea in giurisprudenza nel 1975 a Palermo. Due anni dopo inizia a lavorare come vicedirettore all’Ufficio
del Registro di Agrigento e, due anni dopo diventa sostituto procuratore al Tribunale di Agrigento. All’età di 36 anni, Livatino si sposta nella sezione penale dello stesso Tribunale.

Il contesto della Sicilia tra gli anni ’70 e gli anni ’90

Rosario Livatino faceva il magistrato in una zona nella quale operava da decenni un’articolazione di Cosa nostra. A Canicattì, a pochi metri di distanza dalla casa dei Livatino abitava Antonio Ferro, uno dei capi di Cosa nostra in quell’area: nei confronti di costui Livatino dapprima istruì, coi colleghi della Procura di Agrigento, il processo per associazione mafiosa, che si concluse con la condanna dello stesso Ferro, a 12 anni di reclusione e con la confisca di tutti beni mobili e immobili. A partire dal 1983 soggetti criminali di Palma di Montechiaro si accordano
con frange criminali di Canicattì per compiere insieme una serie di rapine. La svolta per le dinamiche associative
mafiose si realizza nel 1989, proprio a Palma di Montechiaro, quando all’interno di Cosa nostra si manifesta una
spaccatura tra chi resta nell’organizzazione originaria, e chi intende formare, ed effettivamente costituisce, una nuova “famiglia”, che prende il nome di “stidda”.

Il momento dell’omicidio

Livatino era un magistrato serio e rigoroso “che perseguiva le cosche mafiose impedendone
l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole”. Dagli atti processuali emerge con chiarezza che fu questa
la ragione della condanna a morte di questo giudice, le cui sentenze erano così ben costruite da reggere a tutti
gradi successivi: essa fu decisa dalla stidda di Canicattì, la quale ne delegò l’esecuzione alla stidda di Palma di Montechiaro. Per motivare gli esecutori, Giovanni Avarello, uno dei mandanti, aveva convinto i complici che Rosario Livatino perseguisse i componenti della stidda e invece fosse benevolo nei confronti degli appartenenti a Cosa nostra. Era una evidente calunnia, ma l’efferatezza del delitto deriva da parte dei killer dall’infondata convinzione di eliminare un giudice loro “nemico”, e favorevole invece all’avversa fazione. L’omicidio venne messo in atto da ben
quattro killer armati di mitra, fucile e pistole, per dimostrare sia a Cosa nostra che allo Stato la “capacità
criminale” e la “potenza di fuoco” di quella che si ergeva a “nuova mafia”, la stidda.

di Noemi Cappuccio

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